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Laxaþjóð | A Salmon Nation

Il nostro rapporto con la natura non solo definisce la nostra storia, ma plasma anche il nostro futuro. Eppure, un metodo di allevamento ittico industriale praticato nelle acque dei fiordi islandesi, rischia di distruggere una delle ultime aree selvagge rimaste in Europa. Laxaþjóð | A Salmon Nation racconta la storia di un Paese unito dalle sue terre e dalle sue acque e rende omaggio alla forza di una comunità fermamente intenzionata a proteggere i luoghi e gli animali selvatici che hanno contribuito a forgiarne l'identità.

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Perché acquistiamo continuamente cose nuove?

Archana Ram  /  novembre 15, 2023  /  12 Minuti di lettura

In questo senso, il nostro cervello mostra una predisposizione.

Ecco come funziona il nostro cervello quando facciamo shopping. O meglio, una versione semplificata creata con tessuto Patagonia in eccesso.

Tutte le illustrazioni sono a cura di Naíma Almeida

Quando abbiamo comprato la nostra prima casa, ci siamo posti l’obiettivo di un consumo consapevole. Invece, tutte le case prese in affitto prima di allora erano piene di oggetti insignificanti di cui rimaneva ben poco quando il contratto di locazione scadeva. Quando io e mio marito riuscimmo finalmente a comprare una casa tutta nostra, volevamo riempirla di cose che potessero invecchiare con noi. Ciò non significa affatto che potevamo permetterci di comprare tutto quello che volevamo. L’acconto e i decenni di rate del mutuo che ci attendevano, ci incentivavano a comportarci in modo parsimonioso. Volevamo però, che ogni oggetto che sceglievamo di portare in casa avesse un significato ben definito.

Nella maggior parte dei casi riuscimmo a tener fede a quel proposito; un tavolo da pranzo degli anni quaranta comprato a un mercatino dell’usato, tappeti tramandati di generazione in generazione e nuovi oggetti realizzati artigianalmente. Tranne il divano, quello fu uno sbaglio. Era troppo piccolo per la stanza e decisamente troppo piccolo perchè due esseri umani e un cane di grossa taglia potessero sedersi comodamente. Decidemmo quindi di mettere da parte un po’ di soldi per comprarne uno nuovo. Abbiamo condotto ricerche approfondite, ricreando le nostre posizioni da solotto proprio lì nei negozi di mobili. Volevamo che questo divano rimanesse con noi per molto tempo. Di conseguenza, la domanda posta alla commessa e di cui più ci premeva la risposta è stata: quanto durerà?

“Probabilmente ve ne stancherete prima che smetta di fare il suo dovere”, rispose lei.

Non volevo ammetterlo, ma forse aveva ragione. A dire il vero, forse non mi rendevo conto che ci fosse un altro motivo per il quale volevo un divano nuovo: mi ero stufata di quello che avevamo. Cercavo di mascherare la cosa con ragioni più pratiche, ma la verità era che dentro di me c’era un forte desiderio di avere un divano completamente nuovo.

Il mio desiderio di qualcosa di nuovo non era solo emotivo. Era anche neurologico. Che si tratti di mobili, abbigliamento, cibo o di una novità sui social media, il nostro cervello è attentissimo alle novità. Appena qualcosa viene introdotto nel nostro campo visivo scatena una risposta neurologica: un piccolo impulso di dopamina, il neurotrasmettitore del benessere che scatena in noi una reazione positiva ogni volta che ci interfacciamo con qualcosa di nuovo.

“Dal punto di vista della sopravvivenza, è comprensibile perché ciò avvenga”, spiega la dottoressa Ann-Christine Duhaime, professoressa di neurochirurgia presso la Harvard Medical School, nonché direttrice del reparto di neurochirurgia pediatrica presso il Massachusetts General Hospital e autrice del libro intitolato “Minding the Climate: How Neuroscience Can Help Solve Our Environmental Crisis”. “Se un uomo o un animale preistorico si fosse trovato davanti ad un nuovo campo di mirtilli, questo sarebbe stato positivo. Invece, se si fosse trovato davanti ad una nuova minaccia, come un predatore, e non si fosse accorto di esso, sarebbe stato terribile. Il sistema nervoso è strutturato in modo che qualcosa di nuovo scateni più attenzione di qualcosa di familiare”.

Perché acquistiamo continuamente cose nuove?

Siamo quindi attratti dalle cose nuove perché, in parte, il nostro cervello ci spinge in quella direzione. Era indubbiamente chiaro alle comunità preistoriche di cacciatori e raccoglitori: un nuovo campo di bacche equivaleva ad una cosa bella, mentre una tigre dai denti a sciabola ad una cosa brutta. Al giorno d’oggi però, questa inclinazione contribuisce al consumo eccessivo e conseguentemente alla crisi climatica.

Questi segnali fanno parte del sistema di ricompensa del cervello, un circuito di feedback che ci aiuta a prendere decisioni. Come spiega Duhaime in questa spiegazione semplificata, riceviamo per prima cosa dopamina quando notiamo una novità (la cosiddetta “risposta di allerta”). Questa risposta può essere considerata come un’immagine di lavoro a scuola: aiuta a rafforzare il nostro comportamento. A questa seguono rapidamente altre risposte, a seconda della novità. Poi prendiamo una decisione, ed infine sperimentiamo il risultato. Se l’esperienza è gratificante, il nostro cervello lavora con il centro della memoria (l’ippocampo) per rafforzare l’associazione positiva.

Con l’evoluzione di questo sistema di ricompense, abbiamo iniziato a preferire non solo le singole novità, ma una varietà considerevole di cose nuove. Dal punto di vista evolutivo, non abbiamo dovuto contrastare questo fenomeno perché tutto era limitato e scarso. Ma dopo che le rivoluzioni industriali della fine del 1700 e gli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale hanno portato crescita, velocità e abbondanza, il “tutto con moderazione” è diventato una proposta bizzarra piuttosto che un meccanismo di sopravvivenza.

Adesso, più che mai, abbiamo bisogno di quei freni. Il consumismo è esploso. Ellen MacArthur Foundation afferma che la produzione globale di abbigliamento, calzature ed accessori è raddoppiata dal 2000 al 2015. Ma diamo un’occhiata a cosa significa quanto appena detto, a livello individuale. Nel 1930, la donna media americana possedeva nove abiti. Nel suo libro Fixation, l’autrice e professoressa Sandra Goldmark afferma che oggi ne possiede quasi il triplo. Persone con redditi più alti potrebbero averne ancora di più.

La produzione di vestiti e altri beni non è gratuita per il pianeta, anzi, lo danneggia. A differenza per quanto riguarda il costo ambientale dei generi alimentari, questa legge di causa effetto è meno conosciuta e meno pubblicizzata. Sappiamo che la produzione di cibo richiede risorse come manodopera, terra e acqua. I nostri vestiti iniziano allo stesso modo: i tessuti sono fatti con fibre vergini sintetiche ottenute da materiali come petrolio, canapa o cotone. Spesso dimentichiamo che i nostri vestiti, un tempo erano materia vegetale, e comportano ad un notevole consumo di risorse e una considerevole quantità di lavoro, dalla fase di tessitura fino al prodotto finito. Purtroppo, nella vita quotidiana non pensiamo a questa connessione.

Si stima che il settore dell’abbigliamento generi fino al 10% delle emissioni di carbonio a livello globale, soprattutto nelle fasi della produzione e della lavorazione: dalle operazioni di trivellazione, estrazione e deforestazione per l’approvvigionamento delle materie prime al consumo di risorse idriche ed energetiche (spesso carbone) per alimentare i macchinari che producono gli indumenti. Nemmeno le iniziative più nobili, come l’impiego di materiali riciclati o del cotone organico, sono sufficienti a contrastare del tutto l’impatto. Un esempio dalla fonte: nel 2023 circa il 90% delle emissioni prodotte da Patagonia viene generato nell’ambito della catena di approvvigionamento e della produzione dei materiali.

La maggior parte dei vestiti che la gente smette di indossare, a meno che non vengano tramandati, riciclati o riutilizzati, viene smaltita in discariche o inceneritori. Stando all’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti, questa era la fine che faceva, nel 2018, l’85% degli articoli di abbigliamento, il che corrisponde a quasi 40 chili di rifiuti a persona. Non ci rendiamo conto dell’entità di questi rifiuti perché, una volta terminati, gli indumenti sono un problema di qualcun altro: dei trasportatori di rifiuti, delle organizzazioni non profit che smistano montagne di donazioni spesso inutilizzabili o di altri Paesi in cui questi abiti si accumulano. Questo insidioso modello di economia lineare “take-make-waste” potrebbe far salire la quota di emissioni generate dal settore al 50% entro il 2030.

Naturalmente, è coinvolto un sistema di ricompensa che motiva i dirigenti, gli azionisti e le altre parti interessate a spingerci all’acquisto, addirittura rendendo l’acquisto di nuovi articoli più conveniente e agevole rispetto alla riparazione di quelli che già possediamo. Durante le ricerche condotte per il suo libro, la dottoressa Ann-Christine Duhaime, esperta in neurologia, si è imbattuta in riviste di marketing che analizzavano proprio questo sistema di ricompensa neurologico.

L’autrice spiega: “La ricerca è stata condotta con uno sguardo incentrato sulle vendite. Siamo convinti che l’economia debba continuare a crescere, ma è importante considerare chi beneficia dall’acquisto di un particolare prodotto e il motivo. Raramente ci diranno apertamente: ‘Voglio che compriate questo prodotto per garantire bonus al mio CEO e al mio VP’. Piuttosto, cercheranno di convincervi che dovreste acquistarlo perché migliorerà la vostra immagine, per esempio. Questo tipo di consumismo contribuisce ad aggravare la seria crisi che stiamo affrontando, la quale sta assumendo proporzioni dilaganti a livello globale”.

Ma prima di giudicare voi stessi per questa mentalità totalizzante, ricordate che il vostro cervello sta inconsciamente facendo la sua parte dietro le quinte. Lo shopping offre al nostro cervello una ricompensa immediata e a breve termine. Una gratificazione istantanea, per così dire. Ma dopo qualche anno o mese (o settimana), quello che avete comprato vi sembrerà meno entusiasmante. Come il mio divano o quando guardo il mio guardaroba e dico che non ho “niente” da mettermi.

Anche il cosiddetto “fast fashion” ne è responsabile, agendo come un vortice incessante di tendenze che ci induce a sentire il bisogno di acquisti più frequenti. La proposta di capi a basso costo e che si consumano rapidamente, rende il bisogno di sostituirli ragionevole e accessibile. Un altro colpevole della mentalità “di più è meglio” è il nostro stesso sistema nervoso. Nel tempo, il nostro cervello riduce il valore della ricompensa, aprendo spazio all’apprendimento di nuove esperienze. Per provare la stessa sensazione di piacere che abbiamo sperimentato con il nostro ultimo acquisto, spesso ci troviamo a continuare a comprare. Secondo l’azienda di consulenza McKinsey, le persone indossano in media i vestiti che possiedono con una frequenza del 36% inferiore rispetto a 15 anni fa.

“Dal punto di vista evolutivo, se avessimo colto sempre e solo le stesse opportunità, non ne avremmo mai esplorate di nuove”, afferma la dottoressa Uma R. Karmarkar, assistente alla cattedra di psicologia dei consumi presso la School of Global Policy and Strategy della UC San Diego. “Il piacere della novità è davvero utile per trovare cibo, reperire nuove informazioni ed esplorare il mondo che ci circonda. Ci permette di non rimanere indietro e ci dà l’opportunità di migliorarci continuamente”.

Sebbene Karmarkar mi abbia spiegato le dinamiche psicologiche sottostanti, pensare che l’acquisto di vestiti nuovi sia un’opportunità per migliorarci è quanto meno ridicolo e, nella peggiore delle ipotesi, è accondiscendente, egoista e vergognoso. A giudicare dal numero di seguaci di Marie Kondo negli ultimi dieci anni, sono molte le persone che condividono il mantra “meno è meglio”. Eppure continuiamo a consumare. Questo perché, come sostiene Karmarkar, quando prendiamo la decisione di acquistare qualcosa non solo vengono attivati segnali neurologici, ma si verifica anche una complessa interazione tra emozioni, desideri, necessità e pressioni esterne.

“Intervengono numerosi fattori che ci inducono, anzi, che ci spingono, ad effettuare un acquisto”, afferma Karmarkar. “Magari ci viene proposta un’offerta promozionale che accresce il senso di gratificazione. Un’altro fattore è costituito dalla scarsa disponibilità che ci induce a credere che se non otteniamo una determinata cosa subito, non riusciremo ad ottenerla mai più. Ad aggiungersi a questo, c’è la pressione sociale. La paura di perdersi qualcosa è un vero e proprio fenomeno psicologico. Si tratta di occasioni che provocano risposte intense, come i saldi del Black Friday, il messaggio che ottieni è: “sto solo facendo quello che fanno tutti”. Se esci da un negozio a mani vuote, ti sorge il dubbio che tu abbia commesso un errore. Spesso compriamo cose che neppure ci piacciono perché il processo decisionale di per sé è un’esperienza appagante”.

Perché acquistiamo continuamente cose nuove?

Gli sconti, l’esclusività e la rarità possono influire sul grado di appagamento derivabile da quello che stiamo considerando di comprare e, in ultima analisi, sulla decisione stessa di effettuare o meno l’acquisto.

Capire questi tic biologici ed emotivi può contribuire a spiegare il perché esistono iniziative come il Black Friday estivo e il Prime Day di Amazon. Chi mira al profitto sa esattamente come attirare la nostra attenzione, persino attraverso il modo in cui viene riscosso il pagamento. E quando diciamo scherzosamente che un “acquisto farà male al portafoglio”, non è solo una metafora. Il “dolore nel pagare”, un’espressione coniata dall’esperto di psicologia comportamentale Ofer Zellermayer nel 1996, esiste davvero.

“Secondo Karmarkar, alcune ricerche sul cervello hanno evidenziato che la sensazione che proviamo non è legata al dolore fisico, poiché tali circuiti non si sovrappongono. Si tratta di un dolore emotivo, simile alla risposta cerebrale alle situazioni sgradevoli o tristi, piuttosto che a una scossa elettrica.”

Karmarkar sottolinea che il denaro fisico è un punto dolente. Lo shopping digitale, invece, è il momento in cui il dolore di pagare è minimo – che si tratti di shopping online, Venmo, Apple Pay o forse, in un futuro non troppo lontano, di battere due volte le palpebre per convalidare una trattazione. Senza il nostro portafoglio fisico e senza dover consegnare banconote o carte di credito, abbiamo praticamente eliminato il dolore che potrebbe salvarci da spese e consumi eccessivi.

Invece, abbiamo incanalato ancora più emozioni nei vestiti stessi. L’acquisto di vestiti non è più semplicemente determinato dalla loro utilità. Rappresentano una forma di auto-espressione, la nostra identità, le nostre ispirazioni e i nostri valori, che si tratti di capi firmati, in stile vintage, athleisure, riciclati, upcycled, fatti a mano, ecologici, Made in Italy, Fair Trade Certified™ e così via. Persino da bambini siamo consapevoli del potere di ciò che indossiamo. Quando andavo alle elementari desideravo tanto un costume da Cleopatra comprato apposta per Halloween e fui tutt’altro che felice di dovermi presentare a scuola con indosso un costume da sovrana egiziana fatto in casa.

Anche i miei genitori, nonostante abbiano infranto il mio sogno non comprandomi il costume che volevo, capivano il valore culturale e sociale di sfoggiare un costume “nuovo di zecca”. Anni fa, pensai erroneamente che l’auto di famiglia fosse di seconda mano e i miei genitori mi corressero prontamente dicendomi: “È nuova, non andare in giro a raccontare che è un’auto usata”. Comprare un’auto nuova, né di seconda mano, né regalata da parenti, era un simbolo indicante che alla fine i due immigrati ce l’avevano fatta in America.

Duhaime osserva che, dal punto di vista biologico, piuttosto che da quello culturale, ciò che richiama l’attenzione del nostro cervello è la novità e non necessariamente il nuovo. Ci sono modi per soddisfare le nostre emozioni in modo più appagante e meno deprimente: ad esempio, acquistando prodotti di seconda mano o prendendo in prestito dagli amici, oppure riparando i nostri stessi vestiti in modo che sembrino nuovi. Il nuovo non è di per sé un male. Ma se invece di arrabbiarci per il fatto che possiamo comprare meno, lo vedessimo come un’occasione per sfruttare le poche opportunità che abbiamo? E dove altro possiamo trovare la novità?

“Tutto ciò che è gratificante non lo è su un solo piano”, afferma Duhaime. “Presupponiamo di possedere qualcosa, come una fotografia, un vaso o un mobile che appartiene alla nostra famiglia da molto tempo. Se abbiamo un qualche legame con un oggetto, la ricompensa assume tutt’altro significato. L’oggetto è associato a ulteriori strati di significato e memoria, cui va aggiunta la ricompensa derivata dal fatto che non si è consumato più del necessario.

Duhaime spiega che gli esseri umani e gli animali sono biologicamente progettati per rispondere alle novità. Ma questa non è la nostra unica focalizzazione. È solo uno dei tanti fattori a cui rispondiamo. Altri fattori, come la preoccupazione per la crisi climatica, possono influenzare e cambiare le nostre priorità.

“Le ricompense sociali hanno un potere considerevole”, afferma. “Se ci si sente diversi dagli altri e si vuole cambiare, può essere difficile farlo da soli. Tuttavia, se si trova sostegno da persone con idee simili, diventa più probabile apportare cambiamenti. Le abitudini si diffondono quando individui con motivazioni simili si uniscono per produrre cambiamenti insieme. Ricorda che ciascuno di noi ha un’influenza su chi ci circonda.”

Duhaime condivide la storia dei suoi guanti di alpaca preferiti, consumati e pieni di buchi. Non aveva mai rammendato nulla prima di allora, ma si recò in un negozio di lana e iniziò a discutere le opzioni di cucito con la proprietaria, la quale alzò il gomito per mostrare con orgoglio una toppa che metteva in mostra, anziché nascondere, il rammendo.

“Abbiamo iniziato a discutere di un approccio innovativo al concetto di rammendo”, racconta. “Entrambe eravamo entusiaste del maglione che avevamo riparato. Adesso adoro mostrare i miei guanti. Il sistema nervoso è progettato in modo da poter cambiare ciò che percepiamo come ricompensa. E possiamo rappresentare la creatività, l’orgoglio e la credibilità del nostro stile senza necessariamente aumentare i nostri consumi”.

Perché acquistiamo continuamente cose nuove?

“Siamo esseri umani. Abbiamo bisogno di gioia”, afferma la dottoressa Ann-Christine Duhaime. “Ma si può seguire un’alimentazione sana e consumare alimenti migliori per il pianeta. Possiamo fare cose che sono davvero divertenti e migliori per il pianeta. Prendendo scelte migliori per noi stessi, per i nostri figli e per i figli dei nostri figli, senza rinunciare alla gioia. Dobbiamo avere una visione per un futuro migliore”.

Possiamo anche noi diffondere un messaggio. Uno degli esempi più famosi è Madeleine Albright, ex Segretaria di Stato degli Stati Uniti, che utilizzava spille per inviare messaggi politici. Come la spilla a forma di serpente che indossò nel 1997 ad un incontro con funzionari del governo dell’Iraq dopo che uno degli uomini al servizio di Saddam Hussein’s la chiamò un “serpente senza pari” (il Museo Nazionale della Diplomazia Americana ospita ora alcune delle sue spille più famose usate per lanciare messaggi).

Allo stesso modo, il gesto di indossare vestiti usati o riparati comunica il concetto che ne abbiamo già abbastanza. Non è solo una dichiarazione di moda usare ciò che abbiamo già, ma che è anche necessario per un futuro migliore.

“Urlare in faccia alle persone ‘Il pianeta sta bruciando!” può allontanarle”, sostiene Duhaime. “Ma si può indurre la gente a riflettere su questi temi, per esempio indossando un maglione rattoppato in casa con un bel ricamo. Possiamo consumare meno e fare cambiamenti nella nostra vita senza rinunciare alla gioia di vivere. Non dobbiamo vivere da eremiti, ma abbiamo il dovere di prendere questo problema più seriamente di quanto abbiamo fatto in passato”.

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